Dedicato agli alberi

Un'immagine della devastazione di Vaia. Foto di Pierluigi Orler

Un'immagine della devastazione di Vaia. Foto di Pierluigi Orler




Lunedì 29 ottobre dovevo andare a Cencenighe, un piccolo paesino nelle Dolomiti bellunesi, nel territorio dell’Agordino. Era prevista una giornata di formazione con gli operatori del luogo: turismo di montagna, digitale, comunicazione.

Ma non se ne è fatto niente, tutto rimandato, i bollettini davano allerta meteo, allerta rossa, la massima possibile. Si attendevano precipitazioni intense, il caldo anomalo delle ultime settimane di ottobre era destinato a terminare, di colpo, per lo scontro con un grosso fronte freddo in ingresso.

Ci aspettavamo pioggia, tanta pioggia. Ci aspettavamo vento, e pure tempesta.

Ma nessuno si aspettava questo, nessuno.

Raffiche di vento violentissime, con folate che hanno raggiunto quasi i 200 km all’ora. Piogge battenti ininterrotte per ore, quantità incredibili di acqua che si sono abbattute in pochissimo tempo su un terreno reso secco da un autunno asciutto. I torrenti, cresciuti enormemente, hanno eroso i letti, rotto gli argini, ingrossato fiumi, abbattuto ponti, consumato strade, distrutto linee elettriche. La viabilità paralizzata ed un black-out quasi totale hanno isolato le valli, richiedendo uno sforzo straordinario alla protezione civile, ai vigili del fuoco e ai volontari che ancora una volta hanno dimostrato la loro capacità di intervento.

Non c’è voluto molto a capire che l’entità dei danni era stata ingente. Ci sono stati morti, case invase dal fango, alberghi resi inagibili, auto spazzate via, attività devastate. C’è voluto un po’ però per capire che quello che era successo non era stato solo un fenomeno straordinario.

No, era stato peggio, molto peggio. Quando il 30 ottobre il tempo si è aperto e le nubi si sono alzate, tutti abbiamo iniziato a capire cosa era successo.

La situazione sopra il lago di Carezza, nelle foto di Walter Donegà

La situazione sopra il lago di Carezza, nelle foto di Walter Donegà

I venti avevano spazzato i boschi con una violenza che nessuno, a memoria d’uomo, può ricordare. Boschi interi rasi al suolo, sradicati con una facilità disarmante da lasciare allibiti, un paesaggio modificato radicalmente che non sarà più lo stesso, se tutto va bene ci vorranno cinquant’anni per ripristinarlo.

Una delle drammatiche immagini di Anton Sessa

Una delle drammatiche immagini di Anton Sessa

Non si è trattato solo di una alluvione, non si è trattato solo di alcuni boschi persi. Si tratta di un campanello di allarme terribile di cui tutti dovremmo preoccuparci. Quando esonda un fiume, ci sono spesso responsabilità puntuali, errori di progettazione, magari una stima errata di possibili fenomeni, o l’ingordigia nello sfruttamento del territorio che hanno portato il superamento di un limite che la natura riporta nei suoi confini corretti, facendoci capire che lì non si sarebbe dovuto costruire o coltivare.

I boschi sradicati dalla tormenta di qualche giorno fa non sono però attribuibili ad un difetto di una progettazione umana. Quei boschi erano il risultato di millenni di equilibrio, la giusta risposta ambientale per quel contesto montano. Un equilibrio spezzato, in maniera brutale, da poche ore di drammatica tormenta.

La discussione è aperta, e non da oggi. C’è chi sostiene siano fenomeni isolati, che boh, che forse c’entriamo tutti noi ma chi lo sa. Io non sono un esperto, e cerco di interpretare quello che vivo, che conosco, su cui mi informo.

E mi convinco sempre più che tempo non ce n’è più.

Sarà che per me la montagna è dove voglio vivere e il bosco è casa, sarà che ho la fortuna di abitare in una città che mi permette di staccare, e di trovare proprio nel bosco quella serenità che mi permette di vivere al meglio.

dedicato agli alberi

Sarà per tante ragioni ma questi fatti mi hanno sconvolto lo stomaco e svuotato l’anima. Mi chiedo cosa posso fare io, più di quello che faccio da tempo. Vivo in una città (Trento) ai vertici delle classifiche del riciclo, e faccio la mia parte, come tutti. Cerco di vivere una vita responsabile, con consumi sensati e tendenzialmente rispettosi del territorio, delle stagioni e così via. Limito gli spostamenti inutili, cerco di usare i mezzi pubblici. Ho sempre creduto alla sensibilizzazione, ai movimenti dal basso, a dare l’esempio, partendo dai figli, a parlarne con gli amici e con i conoscenti. Sono di natura ottimista, ed ho sempre pensato che sarebbe potuto bastare, che il mio timido ambientalismo servisse a qualcosa oltre che a placare la mia coscienza.

Ecco, no, mi sbagliavo. Non è bastato, non basterà.

Continuare come sempre, nascondendo la polvere sotto il tappeto, dando la colpa al destino cinico e baro, sperando che la prossima volta la tempesta si fermi un po’ più a nord, a est, altrove, non servirà. Certi equilibri si sono rotti, forse per sempre, ed è anche tardi per prevenire, dovremo cambiare radicalmente il modo in cui viviamo il territorio, non per scelta ma per obbligo.

La storia della lotta ai cambiamenti climatici è una lunga storia, quasi sempre perdente. Il punto di maggiore successo, il protocollo di Kyoto, è di oltre 20 anni fa ed è ampiamente deficitario su molti aspetti. In particolare nel protocollo il focus è tutto sulla mitigazione: ridurre le quote di immissione di gas in atmosfera, ridurre il consumo di combustibili fossili, introdurre fonti rinnovabili, incrementare l’efficienza energetica.

È ora di iniziare a pianificare interventi di adattamento, di agire per minimizzare il danno sui territori, di anticipare gli effetti e mettersi in sicurezza. Questo vale per Venezia e per la Liguria, ma vale anche per le nostre valli, destinate a subire la violenza dei fenomeni atmosferici con sempre maggiore frequenza.

L’ultimo allarme di poche settimane fa ci dava dodici anni per salvare il pianeta. Dodici anni, un’inezia; se quelle previsioni sono realistiche, siamo spacciati. Lo abbiamo letto nelle nostre bacheche, ci siamo spaventati il giusto, e siamo passati al post successivo, perché quando i problemi sono troppo grandi e non puoi fare niente per risolverli, tanto vale ignorarli.

Normalmente sono ottimista, oggi mi è molto più difficile. Anche in questa devastazione, qualcosa ha resistito, qualche nota di colore in queste grigie giornate è rimasta: è un albero, guarda un po’.

Ci salveranno gli alberi, forse. Voglio continuare a sperarlo.

Foto di Pierluigi Orler

Foto di Pierluigi Orler

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