La neve, splendida anche in estate
Se c’è un aspetto ripetitivo in questa mia quarantena è l’immutabilità delle condizioni meteorologiche. Condizioni meravigliose, con un sole splendente che dà forza ed energia (anche a guardare dalla finestra) e temperature massime sempre sopra i 15°.
Novembre è (dovrebbe essere) il mese più piovoso dell’anno. Il mese in cui le temperature si abbassano, sui rilievi nevica, e si preparano le condizioni per l’avvio della stagione sciistica. Da decenni ormai la neve naturale non basta più, ed è integrata (o sostituita) dalla neve programmata. Novembre è il mese della preparazione. Complici le temperature in calo, sotto lo zero termico per buona parte della giornata, i cannoni cominciano a sparare, a preparare le piste, a creare le condizioni per l’avvio della stagione invernale, universalmente riconosciuta in Italia con il ponte di Sant’Ambrogio.
La stagione dello sci ha ritmi ben definiti. Si parte con il ponte dell’otto dicembre, un momento di picco che fa da contraltare al resto di dicembre in cui le presenze sono fiacche, legate alle sciate di un giorno ed agli arrivi per i mercatini di Natale. Poi ci sono i 15 giorni che fanno cassa: il mercato italiano si gioca nei giorni da Natale all’Epifania. E poi basta, con carnevale come unica eccezione che rompe lo schema portando un po’ di tricolore sulle piste.
Il resto della stagione è riempito dagli arrivi dall’est Europa. Polacchi e cechi sono ormai maggioritari anche rispetto ai tedeschi e si alternano in una staffetta che riempie le destinazioni, garantendo il benessere delle valli dello sci.
Il mercato è però saturo da tempo. Gli allarmi sull’invecchiamento dei praticanti dello sci alpino e sullo scarso appeal verso le nuove generazioni si sprecano da anni. Per riempire le destinazioni si va sempre più lontano, nella speranza che, esaurito il mercato di cechi e polacchi, possano essere scandinavi, bielorussi o coreani a garantire i flussi di cui l’industria necessita. Un’industria onerosa, che richiede investimenti e costi di produzione importanti.
Non che manchi la voglia di andare sulla neve anche da parte degli italiani. Il mercato in controtendenza dello scialpinismo, che negli ultimi dieci anni ha visto numeri in costante crescita a doppia cifra, lo sta a dimostrare. La prima (e unica, ahimè) nevicata di questa stagione ha immediatamente scatenato la voglia di outdoor e di montagna, trasformando la “prima in Marmolada” in un serpentone che neanche nel peggiore dei fenomeni di overtourism.
Un mercato in contrazione, a costi crescenti e praticanti sempre più lontani (geograficamente), minacciato dalla crisi climatica e dalla crescente attenzione verso gli aspetti della sostenibilità. Un mercato immobile, incapace di ripensarsi, di uscire da vecchi schemi consolidati che ne hanno decretato il successo per così tanti anni, malgrado da tantissime parti si sprecano gli inviti ad un ripensamento.
Quattro anni fa scrivevo:
“Si deve avviare, oggi, una strategia turistica alternativa che guardi lontano, da qui a venti o trent’anni, che provi ad immaginare un turismo invernale in cui la neve non è più il fattore fondamentale per andare in montagna.”
Lo scrivevo a fronte delle condizioni anomale (anomale?) del Natale senza neve del 2016, uno dei tanti di questo ultimo decennio.
In montagna quest’estate c’era ottimismo. La crisi del turismo legata al COVID che stava colpendo pesantemente interi settori stava passando molto più leggera sulle destinazioni che offrivano outdoor e natura, aria aperta e distanziamenti (naturali). Peccato che nelle destinazioni sciistiche l’estate, seppur caratterizzata da presenze importanti, porti margini ridotti: i ricavi veri, quelli che salvano le stagioni, si fanno d’inverno.
E quest’inverno non promette niente di buono, si sta preparando per l’industria dello sci la tempesta perfetta.
La pandemia è più forte che mai. I mercati esteri sono già pregiudicati, utopistico pensare che a gennaio o febbraio ci siano le condizioni per spostamenti importanti legati al turismo internazionale della neve.
Il mercato italiano è principalmente legato al Natale. Manca un mese, e la situazione è critica. Le migliori ipotesi che circolano parlano di “tregua natalizia”. È troppo presto per capire cosa succederà, ma è evidente che sarà difficile pensare ai numeri tradizionali. Servirebbe una azione drastica e definitiva, in grado di mettere in sicurezza il territorio in questo mese che resta, per arrivare al Natale più sicuri (e sereni).
Servirebbe fare come sta facendo l’Alto Adige, che ha avviato una campagna di test di massa che ambisce a testare il 70% della popolazione e che trova proseliti oltralpe. Peccato che per un Alto Adige che si è messo da solo in zona rossa, ci sono Lombardia e Piemonte che pur essendo nel pieno del contagio scalpitano per tornare alla normalità e l’assurdo del Trentino che nasconde i dati con politiche ai limiti del ridicolo, dove i numeri di morti e di terapie intensive sono ai livelli di guardia (e pari a quelli dell’Alto Adige) ma magicamente i contagiati non ci sono quasi più.
Si ma manca un mese, il mercato è dinamico e certamente anche quest’anno succederà tutto all’ultimo minuto. Nessuno prenota ora, prenoteranno il 22 dicembre?
Il problema dei costi non è da sottovalutare. L’industria delle piste da sci richiede il grosso degli investimenti in anticipo, ad inizio stagione. Preparare le piste da sci ha costi importanti che devono essere anticipati, adesso. Il rischio di importanti perdite per la stagione in arrivo è elevatissimo. Le destinazioni e le società impiantistiche devono decidere: vale la pena investire decine di milioni di euro per innevare le piste, quest’anno?
Sparare neve richiede essenzialmente due cose, fatta salva l’infrastruttura: temperature e acqua.
Non piove (seriamente) da un mese, e per buone ore del giorno le temperature sono sopra lo zero. Servirebbero le nevicate preparatorie (quelle che raffreddano il terreno), servirebbero temperature invernali.
E invece si è cominciato a sparare sull’erba, di meglio non si può, anche perché le previsioni sono stabili sul bel tempo per almeno altri dieci giorni. Inutile dire che quest’anno servirebbero quelle abbondanti nevicate che permettano di preparare il grosso delle piste senza l’ausilio della neve artificiale, per abbattere i rischi e le esposizioni finanziarie. Al momento però non sono in vista.
L’estate in montagna si è salvata con il turismo di prossimità. Tantissime persone hanno deciso di cambiare vacanza, un po’ perché non potevano viaggiare all’estero ed un po’ perché la montagna garantiva quelle caratteristiche tanto importanti nella stagione del COVID: natura, aria aperta e così via. Si trattava in molti casi di sostituzione, vado in montagna visto che non posso/voglio andare altrove.
L’inverno è diverso. La settimana bianca per gli italiani è una attività ormai elitaria, soprattutto in un anno di crisi, e difficilmente verrà scelta per compensare qualche altra tipologia di attività. È ragionevole pensare che più avanti nella stagione ci sia una voglia di uscire, che ci possa essere un piccolo rilancio, sempre che non ci sia una terza ondata sullo sfondo. Basterà?
Si ripropone un tema centrale già della stagione estiva: come dare fiducia ai turisti che hanno altre priorità (salute, sicurezza) convincendoli a viaggiare? Che la situazione sia pesante lo si capisce anche dalle parole delle presidentessa di ANEF, l’associazione nazionale degli impiantisti. Valeria Ghezzi era balzata agli onori delle cronache a marzo. Allo scoppio dell’emergenza, con i focolai ben avviati e i ragazzi veneti e lombardi a casa da scuola, aveva esortato tutti ad andare a sciare perché “la neve è più forte del virus“. Un paio di giorni dopo il governo aveva chiuso tutto.
Ora anche la combattiva presidentessa di ANEF sembra essere molto prudente:
È un vero paradosso, quello dell’industria della neve, il paradosso di una innovazione al contrario. Negli ultimi 40 anni le stazioni sciistiche di punta hanno innovato tantissimo, dal passaggio alla neve artificiale alla trasformazione degli impianti con soluzioni moderne ed efficienti, all’adozione di meccanismi di controllo degli skipass che hanno fatto strada portando innovazione anche in altri contesti.
Non hanno però innovato sull’elemento più importante, sul prodotto turistico, rimasto saldamente ancorato allo sci alpino, come se sulla neve non si potesse fare altro. Il problema sta nel cortocircuito tra destinazioni turistiche e società impiantistiche, vere protagoniste delle strategie di sviluppo territoriale, anche grazie ai generosi finanziamenti provenienti dalla sfera pubblica. Possibile che non si possa progettare una reale alternativa? Possibile che l’unico modo di vedere la montagna d’inverno sia legato allo sci alpino?
Difficile chiedere alle società impianti di andare contro i propri interessi. Lo si può e lo si deve invece chiedere alle destinazioni ed ai decisori pubblici che destinano le risorse economiche per lo sviluppo.
Alla fine è un problema di equilibri. L’industria dello sci ha garantito e garantisce ancora oggi l’economia di intere valli di montagna, territori altrimenti svantaggiati che hanno beneficiato di grandi opportunità di crescita e di sviluppo grazie al turismo.
La trasformazione da valli agricole a territori mono-prodotto-sciistico ne ha snaturato l’anima, creando enormi problemi sullo sfruttamento delle risorse, sulla tutela del territorio, sulla sostenibilità nel tempo. Villaggi di poche centinaia di persone che sopportano il peso di decine di migliaia di arrivi, sempre gli stessi luoghi presi d’assalto anche grazie a un desiderio di emulazione che ci porta a ripetere tutti gli stessi errori.
Eppure la montagna offre mille alternative, sulla neve e non. Alternative rispettose del territorio, in grado di preservare gli equilibri. Alternative meno fragili, meno a rischio in situazioni di crisi.
La tempesta perfetta è in arrivo, e quest’inverno sarà dura. Troveremo soluzioni di emergenza e cercheremo di mitigare il più possibile l’impatto, che sarà a cascata non solo sugli operatori del comparto, ma su tutta la filiera, profonda e radicata sul territorio.
È tardi per le soluzioni strutturali, almeno per quest’inverno. Ma la trasformazione profonda che stiamo vivendo è qui per restare, non basterà l’arrivo del vaccino (speriamo presto) per risolvere la crisi del mercato dello sci. È una trasformazione che parte dalle aspettative e dalle scelte degli ospiti e che ricade sui territori che li ospitano, in una spirale il cui degrado va fermato, al più presto.
Serve ripensarsi, ora, per arrivare più preparati alla prossima tempesta.